Progetto Accoglienza
Aggiornamento 7 APRILE 2019:
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Carissimi parrocchiani,
Ai parrocchiani aggiornamento sull’ospitalità della famiglia Siriana - OTTOBRE 2018
Mona, Salim, Jana, Ranna: questi i nomi dei nostri amici (mamma di 60 anni, un figlio di 30 anni e due figlie di 28 e 23 anni), scappati dalla Siria, come avevo avuto modo di raccontare nel precedente messaggio di giugno.
Saranno ospiti da noi per 18 mesi: questo è il programma dei corridoi umanitari previsto dalla Comunità di Sant’Egidio alla quale in questo progetto facciamo capo e della quale abbiamo ascoltato l’appello.
Sempre come avevo scritto nel messaggio di giugno, sono rimasti senza niente, perché la loro casa è stata completamente distrutta e sono dovuti fuggire perché altrimenti votati a morte sicura.
Dalla voce di chi, come loro, ha vissuto questa tragica realtà, abbiamo ripercorso gli ormai sette anni di quella che sembra essere una guerra senza fine: la guerra in Siria, un conflitto iniziato nel marzo 2011, quando la popolazione manifestò contro il regime del presidente Bashar al Assad. Dopo le prime manifestazioni si è passati alla lotta armata e a una vera e propria guerra civile, che ha coinvolto molte altre nazioni, trasformandola in un conflitto mondiale. Bombe, macerie, miseria, morte, distruzione, massacri che non rispariamo la popolazione e di cui i bambini continuano ad essere le prime vittime innocenti. Città intere, come la capitale Damasco e Aleppo, sono state bombardate in modo massiccio colpendo soprattutto le strutture umanitarie, che lavorano per soccorrere le vittime. La situazione a livello umanitario è gravissima: mancano i servizi fondamentali, come scuole ed ospedali, e beni di prima necessità, come cibo, acqua e medicine.
Hanno raccontato del loro paese Idlib, una città della Siria nord-occidentale, situata vicino al confine con la Turchia, una delle zone più interessate dai combattimenti, di come in fuga dal terribile conflitto siano da lì riusciti ad arrivare in un primo tempo in Libano e poi finalmente a Roma.
Il conflitto purtroppo continua e proprio nella zona dove si trova la loro cittadina di provenienza.
Il 5 settembre scorso Avvenire, con un articolo di Elena Molinari intitolato “L’assalto ad Idlib è cominciato”, riportava i seguenti fatti: “Crescono le preoccupazioni internazionali per una strage di civili e una crisi umanitaria a Idlib, in Siria, dove ieri notte i caccia russi hanno sferrato un attacco … Almeno 23 incursioni hanno colpito la zona ieri mattina, seminando morte fra i civili, compresi almeno cinque bambini, stando ai Caschi Bianchi (la protezione civile siriana). I missili sono i primi colpire la zona dopo una pausa di oltre tre settimane senza bombardamenti. Finora la guerra in Siria ha prodotto in 7 anni mezzo milione di morti, a cui si aggiunge più di metà della popolazione che ha dovuto abbandonare la propria casa”.
Ora quando sentiamo o leggiamo della guerra in Siria, davanti a noi compaiono i volti e le storie dei nostri amici, che stiamo imparando a conoscere ogni giorno di più. I ricordi di un passato fatto di semplici sicurezze si mescolano a un futuro incerto, ma anche ricco di aspettative alla ricerca di una nuova casa e di una nuova vita. Un futuro di attese e terrore, speranza e paura, felicità e dolore.
Dei quattro è la mamma, anche essendo ormai sessantenne, quella che fa più fatica sia ad imparare la lingua italiana, sia a vivere in una situazione totalmente inedita e nuova: ha dovuto reinventarsi tutta la sua vita in un paese così diverso da quello della sua nascita.
Quotidianamente impiegano diverse ore nelle lezioni di italiano; da pochi giorni, grazie all’interessamento di una nostra brava parrocchiana, due dei figli stanno lavorando gratuitamente in un bar di largo Somalia, il cui proprietario, generosamente, li ha accolti, per dargli la possibilità di avviare una sorta di inserimento sociale, in cambio del loro aiuto.
Tramite conoscenze di parrocchiani e soprattutto tramite la Comunità di Sant’Egidio si stanno avviando dei progetti di inserimento nel lavoro.
Non è difficile notare che sono persone per bene, onesti, bravi, desiderosi di fare il meglio possibile e che per noi è una grande ricchezza aiutarli e vivere una sorta di scambio culturale.
Diceva san Francesco, del quale pochissimi giorni orsono abbiamo celebrato la festa: “Che sappia mio Signor sempre donare, perché è donando altrui che si riceve”, ricalcando il detto di Gesù riportato in At 20,35: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”.
La decisione di dare loro ospitalità nei locali della parrocchia, ha trovato subito una risposta molto positiva da parte dei fedeli e molte persone (giovani, pensionati, ma anche intere famiglie) si sono rese disponibili fin dai primi giorni per passare un po’ di tempo insieme tra chiacchiere e racconti. Abbiamo così pian piano imparato a conoscere una famiglia in fuga da una terra martoriata dalla guerra: un’esperienza importante per tutti, un impatto forte con la sofferenza generata dalla guerra.
Solo alcuni parrocchiani con le loro offerte hanno già iniziato a contribuire al sostentamento dei nostri 4 amici.
La quota stabilita dalla Comunità di Sant’Egidio è di 5 euro a persona, vale a dire 20 euro al giorno per un totale di 600 euro al mese, più le spese mediche, i trasporti e altre normali necessità.
Invito a questo proposito, anche a nome del Consiglio pastorale e del Gruppo Accoglienza, tutta la parrocchia a far sentire a questa famiglia la nostra vicinanza attraverso la presenza e l’aiuto economico, per chi non ha a disposizione molto tempo, testimoniando una fede che si manifesta anche in gesti concreti.
L’atteggiamento da assumere è quello di pensare seriamente che al loro posto potevamo esserci noi. Questo è uno dei cardini dell’esercizio di carità e di misericordia. Soccorro il bisognoso perché mi vedo in lui e perché, se fossi stato al posto suo, sarei stato immensamente grato al mio soccorritore. Non credo sia difficile immaginare i loro sentimenti, paure, delusioni, sogni spazzati via, sofferenza e rimpianti.
“L’uomo misericordioso verso un disgraziato si ricorda di sé stesso”, dice un detto latino attribuito a Publilio Siro del I secolo a. C.